Il termine Tecnostress compare per la prima volta negli anni ’80: lo psicologo americano Craig Broad lo crea per descrivere il malessere che consegue a un eccessivo e prolungato uso di dispositivi tecnologici.
Negli anni, la patologia è diventata sempre più diffusa al punto che, dal 2007, in Italia è riconosciuta come malattia professionale per effetto di una sentenza emessa dalla Procura di Torino.
Tecnostress e Smart Working
Negli ultimi mesi, complice la grande diffusione dello Smart Working (o del “lavoro da remoto”), il Tecnostress è tornato a tenere banco tra studiosi e addetti ai lavori, interessati a studiarne le cause e i possibili rischi per la salute dei lavoratori.
Il lockdown imposto dall’emergenza Coronavirus prima e le aperture centellinate di aziende e imprese poi, hanno trasformato il lavoro agile in un “lavoro senza mobilità”, caratterizzato da spostamenti praticamente assenti e periodi di svago ridotti all’osso.
La difficoltà a distrarsi una volta terminato il lavoro ha condizionato la vita degli italiani, spesse volte incapaci di abbandonare l’ufficio virtuale e di staccare la spina dal computer. Non senza conseguenze negative per la salute.
L’iperconessione per molti smart worker si è trasformata in malesseri ricorrenti, stress acuto e in un sovraccarico di tempo dedicato alle mansioni lavorative.
Tecnostress: l’eredità del Coronavirus
Secondo una ricerca di Netdipendenza Onlus, tra i sintomi da Tecnostress lasciati in eredità dal Coronavirus agli impiegati digitali si trovano: mal di testa (44,5%), calo della concentrazione (35,4%), nervosismo e alterazione dell’umore (33,8%), tensioni neuromuscolari (28,5%), stanchezza cronica (23,3%), insonnia (22,9%), ansia (20,4%), disturbi gastro-intestinali (15,8%) e dermatite da stress (6,9%). Tra i sintomi più gravi, invece, ecco alterazioni comportamentali (7,1%), attacchi di panico (2,6%) e depressione (2,1%).
L’indagine ha coinvolto oltre mille smart workers, di cui l’87,5% ha dichiarato di usare frequentemente dispositivi mobili connessi a Internet per motivi di lavoro. La maggior parte degli interpellati ha ammesso di essere rimasta collegata alla rete per almeno 8 ore, con picchi di 6 ore anche per quanto riguarda l’utilizzo dello smartphone.
La quasi totalità degli intervistati non ha nascosto di aver utilizzato i dispositivi tecnologici per motivi di lavoro anche a tarda sera, nel letto o, addirittura, nel weekend. Una situazione, questa, che pone inevitabili interrogativi sul comportamento che individui e imprese dovrebbero adottare per contrastare il problema.